Pagina:Puskin - Racconti poetici, 1856.djvu/271

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230 pultava.

ecco apparire una carretta. Tutti gli occhi si volgono curiosi verso quella.

In quella carretta, sta seduto immoto, rassegnato, riconciliato con Dio, confortato dalla fede, l’innocente Cocciu-bei. Accanto a lui è Iscra, suo compagno, non men di lui sereno e tranquillo.

La carretta s’arresta. Il fumo dell’incenso monta alle nubi. I preti cantano in coro il vespro dei morti. Il popolo prega a bassa voce per il riposo di quelli sventurati, i quali pregano per il bene dei loro persecutori. Essi scendono dalla carretta, e salgono sul palco. Cocciu-bei fa il segno della croce, e pone la testa sul ceppo. La moltitudine tace come una adunanza di ombre e di spettri. La bipenne balena, sibila; una testa sbalza. Tutto il campo geme. Una altra testa ruzzola appresso a quella sull’erba sanguinosa. Il carnefice, contento della sua destrezza, ghermisce quelle teste pei capelli, e le scuote con mano nerboruta davanti al popolo.

Il supplizio è compito. La folla indifferente si dirada, si disperde, e già ciascuno torna al proprio tetto parlando dei propri interessi. Il campo poco a poco si fa vuoto. In questo mentre due donne, spossate dalla stanchezza, cosperse di polvere, arrivano, inorridite, sul teatro dell’esecuzione. “È troppo tardi,” dice loro un passeggero accennando al patibolo che si andava scomponendo.

Un sacerdote in abito nero orava lì vicino mentre due Cosacchi ponevano un feretro di quercia sopra un carro.

Mazeppa, cogitabondo e mesto, si separa dalla sua comitiva, e s’allontana dal campo maledetto.