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Pagina:Puskin - Racconti poetici, 1856.djvu/81

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40 li zingari

Alecco. Tal fu la sorte dei tuoi figli, o Roma, o potente rettrice delle nazioni. Vate dell’amore, poeta degli Dei, dimmi, che cosa è la gloria? Un’eco del sepolcro, un grido della fama, un suono che sorvola di generazione in generazione: — oppure un racconto del nomade Zingaro sotto l’ombra della sua tenda affumicata?


Due anni passarono. La pacifica famiglia degli Zingari tuttora corre a caso per le campagne. Dappertutto, come altre volte, incontrano buona accoglienza, e vivono in pace fra di loro e cogli altri. Sciolto dai ceppi della civiltà, Alecco è libero come essi; e con essi conduce una esistenza vagabonda scevra di cure e di timori. Più non rimembra il tempo passato, e s’è avvezzo alla vita zingaresca. Gli piace dormire all’ombra delle tende instabili, gli piace l’ozio perpetuo in che vive coi suoi compagni, e ama persino la loro lingua inculta e scarsa. L’orso strappato dalla tana natia, ospite irsuto della di lui baracca, danza pesantemente e grugnisce nei villaggi, lungo le strade delle steppe, nei casali, davanti alla turba cauta e prudente, e dappertutto va rodendo le importune sue catene. Il vecchio, puntellato al suo bordone, batte con indolenza il tamburino, Alecco guida la belva cantando, Zemfira va in giro a raccogliere il tributo volontario dei contadini. La notte soprarriva, tutti e tre cuociono il miglio non macinato. Il padre dorme, tutto tace, tutto è quiete e oscurità nel padiglione.