Pagina:Racconti sardi.djvu/113

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Il piccino non aveva alcun istinto cavalleresco, e perciò non cedeva mai il suo posto, neppure alle donne. Ma Manzèla camminava più lesta di Telaporca, ed era capace di attraversare tutta la Sardegna a piedi.

Via, via, per lo stradale bianchissimo, attraverso le fresche pianure verdi, coperte di margherite e di campanule agresti, sotto il sole ardente, i due ragazzi andavano chiaccherando e ridendo. Manzèla si era scalzata, e tuffava quasi con gioia i piedi nudi tra l’erba rugiadosa, emettendo ogni tanto un’imprecazione, quando le spine dei cardi molli, nascenti sotto il fieno, le pungevano le gambe.

Niente di più grazioso di Manzèla allorchè nominava i diavoli, o faceva qualche smorfia per dispetto. La fanciulla era una vera figlia del popolino nuorese, piena di malcreanza, di grazia inconsapevole, e di seduzioni bizzarre. Diceva tutto ciò che le saltava in testa, mentiva con la massima disinvoltura, e dava la sua persino ai santi.

Del resto era divotissima, si confessava spesso, e nelle ore di cattivo umore desiderava ardentemente la morte. Ma gli scapolari che teneva al collo e la piccola medaglia che zio Nanneddu le aveva portato da Roma, — sì, precisamente da Roma, quella volta che era andato per testimonio nel famoso processo dei sardi, datagli da un prete, che egli riteneva fosse il papa — non le impedivano di imprecare ad ogni minuto.