Pagina:Rapisardi - Poemi liriche e traduzioni, Remo Sandron, 1911.djvu/546

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     Tal da voi piove un fáscino che tutte
     Le piaghe aperte nel mio core incanta.
     Ritenta il corso rapido degli anni
     L’anima rediviva, ed ecco i lidi
     Raggianti e le magioni auree rivede,
     Che l’animosa giovinezza eresse
     Ne’ suoi celesti rapimenti, e all’Arte,
     A la Bellezza, a la Virtù, sideree
     Consolatrici, ad abitar le diede.
     Ecco il magico regno, i disparenti
     Palagi, i cristallini antri, che un giorno
     L’irrequieta infanzia, amabilmente
     Con la vecchiezza trepida confusa,
     Fe’ risuonar di fiabe e di trastulli.
     In un fantasíoso ondeggiamento
     Fra’ suoi ricordi l’anima si culla,
     E su la calma azzurrità sospesa,
     La perfidia de’ nembi e il porto oblía.


VII.


«D’attinger vette alpine e inesplorate
     Regíoni di ghiaccio altri si vanti;
     Io m’alzai su me stesso, e da la cima
     Del redento pensier placidamente
     Brulicar vidi a me di sotto il mondo.
     O mostruosi baratri, latranti
     Gorghi dell’uman core; o sfidatrici
     Dell’azzurro impassibile, severe,
     Vertiginose, indefinite altezze,
     In voi l’animo altéro, in voi l’acume
     Dell’audace pupilla esercitai;
     In voi mi profondai tutto e mi eressi
     In quell’ebbrezza, in quel furor, che bella
     Rende e voluttuosa anche la morte!
     Ben io potea da le superbe vette
     Serenamente contemplar la vita;
     Ma l’amor tuo, ma l’odio tuo, dolente
     Stirpe dell’uom, così m’attrasse un giorno.
     Che di me stesso armato, entro l’abisso
     Del tuo dolor men venni, e l’opra e il pianto
     Divider teco alteramente elessi.
     Tuonò per gl’insueti antri la voce
     De’ vaticinj miei come parola
     D’odiosa follia; volse ghignando
     A me la saggia ipocrisia le spalle;
     Ma s’io fui saggio e dissi appieno il vero,
     Voi, nè già guari, o miei figli, il saprete.


VIII.


«La vecchiarella, che seduta al sole
     Nel giardin sottostante, il guardo aguzza
     A traverso il cancel, verso la via
     Polverosa fra’ campi, io la conobbi
     Giovane sposa e lieta madre. Ad uno
     De’ suoi poderi il padre mio l’avea
     Chiamata a lavorar col buon consorte,
     Quando, in un verno inoperoso, ardea
     Nel derelitto paesel la fame.
     Due vispi figlioletti a un pàrto nati
     Le ruzzavano intorno, e di sue cure
     Sollecite, amorose eran l’oggetto.
     Odorava di spigo e di codogne
     La pulita casetta, al cui solajo
     Pendean, d’aurati lampadarj invece.
     Tardive sorbe ed appassiti grappi.
     Saldo nel mezzo della stanza, quasi
     Monumento ed altare, ergea fra’ quattro
     Panconi enormi i ben librati staggi
     L’operoso telajo, ove al mattino,
     Mentre ancora lo sposo e i fanciulletti
     Nelle braccia tenaci eran del sonno,

     Canticchiando sommessa ella sedea
     A tramar della tela il grezzo ordito.
     Ma poi che un alto senno, imperíali
     Fasti sognando, a fecondar si accinse
     D’italo sangue gli eritrèi sterpeti,
     Precipitò con l’itale fortune
     Della casa modesta insiem la pace.
     Anch’esso il buon marito ebbe con gli altri
     A mutare in feroci armi la vanga;
     E col riso alle labbra e il pianto in core,
     Veleggiò lunghi giorni a’ lidi ignoti
     Ove ignaro il traea l’altrui talento.
     Ahi, non tutte trascorse eran due lune
     Da quando egli partì, che un malor cieco
     Strinse la gola a’ due fanciulli; e quale
     Restò la madre, orba d’entrambi, a un tratto,
     Solo può dirlo delle madri il core.
     Le si apría fra tante ombre un fil di luce:
     Ei tornerà, pensava. E non lontano
     Era il dì sospirato, allor che un nembo
     Di sconfitta il vessil nostro sommerse.
     Risuonò il mondo al nostro lutto; pianse
     La derelitta, ed. aspettò. Parole
     Di fraterni conforti udía dintorno,
     E assidua, ardente una speranza in petto:
     Ei vive, le dicea; ma inorridito
     Da visfoni atroci era il sno core.
     Solo, perduto nella steppa immensa,
     A la rigida notte, ella il vedea,
     Sanguinante, digiuno, in su la nuda
     Terra supino. Luccicar nell’ombra
     Orrida ne vedea gli sbarrati occhi,
     Desíosi d’un noto astro, d’un caro
     Volto: profondi, animati occhi, accesi
     Di sì vivo dolor, che con la ferrea
     Mano serrarli non potea la morte.

Così, fragile barca a’ flutti in preda,
     Lung’ora errò la poverella mente,
     Finchè da un fosco turbine travolta,
     De la follia ne’ gorghi atri disparve.
     E son dieci anni omai, che a la stess’ora,
     O borea strida o il sollíon fiammeggi,
     Da la celletta sua là se ne scende;
     Presso al ferreo cancel cheta si asside;
     E con gli occhi a la via, fra le preghiere
     Ripetendo sommessa il caro nome,
     La paziente vecchiarella aspetta.


IX.


«Io di qui vi contemplo, uomini, a cui
     La fortuna volubile concede
     Benignamente le carnose groppe:
     Eroi scettrati, aruspici infallibili,
     Impennacchiati ammazzatori, arcigni
     Rigattieri d’Astrea, prosciugatori
     Di Banche, prestigiosi archimandriti
     Di pie congreghe, apostoli e tribuni
     Del proprio ventre. A voi buoni, a voi prodi
     S’inchina il mondo trepidante; a voi
     Laudi strimpella il ribechin fiorito
     De’ rifunghiti menestrelli: io, stolto
     Orditor d’alti sogni, in voi saetto
     L’ultimo strale del mio sdegno; sprezzo
     Plebee minacce, auree lusinghe; e quanto
     Più mugghia osanna a voi dintorno il gregge.
     Tanto più sorge, e il morbid’aer fende,
     Lungo, acuto, insistente il fischio mio.


X.


«Udii le strida, e il furibondo io vidi,
     Reo della propria infermità, legato