Pagina:Rapisardi - Poemi liriche e traduzioni, Remo Sandron, 1911.djvu/547

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     Da fasce atroci ad una ferrea scranna.
     Su la sua fronte dal dolor contratta
     Chiodi parean gli scarsi, ispidi crini;
     Si profondavan ne l’esangue volto
     I neri occhi, due nere anime, due
     Punti che interrogavan l’infinito.
     Strette a’ fianchi anelanti avea le braccia;
     Nude le gambe scarne; enormi e lividi
     Da l’alto seggio penzolanti i piedi.
     Con interrotto lamentío, con voce
     Di fanciulletto moribondo, un sorso
     Chiedeva, un sorso. La tarchiata suora,
     A la custodia de la sala addetta,
     Senza gli occhi levar da un libro santo.
     Cristianamente rispondeagli: Crepa!


XI.


«Ella verrà: già della sua presenza
     Tutta la radíosa estasi io sento,
     Un tramontar di tutti i sensi in una
     Beatissima calma, un ineffabile
     Dissolvimento, come allor che trepida
     L’anima nell’amata anima penetra,
     E in un moto, in un’ansia, in un oblio
     Divino, il cielo dell’amore attinto,
     Soavissimamente si distempra,
     E trasfondendo altrui la propria vita,
     Nell’immortalità sente la morte.


XII.


«Te per l’aspro sentiero urlando aízza
     Barbaramente il vettural rubesto,
     O macero giumento; e tu, pontando
     Le gambe ésili ed inarcando il collo,
     Su per l’erta affannosa il carro trai,
     Che qua e là grave sobbalza e cigola.
     Dal malacconcio pettoral, dal basto,
     Di strepitosi bubboli guernito.
     Rossi erompono al sol gl’impostemiti
     Tuoi guidaleschi; anelano digiuni
     Quali mantici i tuoi fianchi; nè certo
     Del raro cibo, de la via rupestre
     E del càrco inegual tanto ti duoli,
     Quanto dell’uom, che spensieratamente
     Fischiettando ti guida, il loco spia
     Più doloroso del tuo corpo, dove
     Appuntar possa il pungolo e le tue
     Vecchie piaghe avvivar d’altre ferite.
     Non però ti ribelli: e che potresti,
     Misero, tu contro al crudel signore
     C’ha la tua vita e la tua morte in pugno!
     Tacito, rassegnato, a la feroce
     Servità ti sobbarchi, e sol co’ tristi
     Occhi l’umana ingrata indole accusi.


XIII.


Follie, follie! Chi parla in me? Per fermo
     Dentro l’anima mia candida e buona,
     Una fosca, maligna alma si appiatta
     Scovarla io debbo e flagellarla tanto
     Che solo alfin col mio dolore io resti.
     Bizzarra caccia: l’ombra mia perseguo!
     A me dinanzi, come in uno specchio,
     Vedo un altro me stesso; e quando il sole
     De’ suoi raggi m’accende, egli si oscura;
     E se in alto, mi lancio e al cielo aspiro,
     Accosciato nel fango egli sogghigna.


XIV.


«O tempeste dell’anima! Solea
     Come selvaggia procellaria un tempo
     Gavazzare il mio cor fra’ nembi vostri:
     Musiche marziali erano a lui
     Tra le selve o sul mar gli urli del vento:
     Tede festive le sulfuree vampe
     Che solcavano il sen tetro a la notte;
     Ebbríetà di vorticose danze
     Del turbine le spire, in cui ravvolto,
     Dagli abissi del mondo il ciel vedea.
     Su la vetta d’un’alpe, a un picco immane
     Di ghiaccio, all’orlo d’un burron sospeso,
     Mi rivedea meravigliando il sole;
     E come i raggi suoi, puri ed acuti
     Penetravano il mondo i miei pensieri.
     Torbido il core or s’impaluda, stanco
     D’interrogar fra’ turbini la morte:
     In una calma plumbea di letargo,
     In un immenso stupefacimento
     Muto, immemore, inerte il pensier giace.


XV.


Fisso in un punto luminoso il ciglio
     Sì lungamente, audacemente io tenni,
     Che allo sguardo abbagliato il ver si spense.
     Nulla di quanto agli occhi altrui sorride,
     Nulla di quanto a me si volge intorno
     Io vedo più; ma la parola, il pianto,
     Ogni più lieve fremito, ogni moto
     Dell’umano dolor nell’ombra io sento.
     O selvaggia armonia! Sopra a’ tuoi flutti
     Trabalzando, fremendo, in furor vano
     L’anima trambasciata erra, e nel mare
     De la pietà, de la follia si perde.


XVI.


«Entro un magico cerchio, all’ombra, al sole.
     Assiduamente il mio pensier si aggira;
     E quale il peso a trascinar dannato,
     Qual sia dell’opra angoscíosa il fine,
     Non cerca più, forse non può, nè vuole.
     Una desidia inconsueta, un molle
     Torpor l’invade; tacito si avvolge
     Nell’inane fatica; e ancor che in terra
     Posar l’opra e sè stesso in un potrebbe,
     Su l’orlo de l’abisso il peso immane
     Traesi dietro ansando; e parimenti
     Ha della vita e della morte orrore.


XVII.


«Non delitti, non colpe, errori forse
     Commisi, e n’ebbi io sol, misero, il danno;
     Pur qual reo fuggitivo, io d’una ad altra
     Piaggia trabalzo, e ad ogni moto, ad ogni
     Sguardo dell’uomo tremando m’inselvo.
     Ma non seno di notte o di foresta,
     Non muto e desolato antro di morte
     A l’altrui caccia, al mio terror m’invola.
     A me dintorno, ecco, ognor più si stringe
     La congiurata ira fraterna, e fieri
     Veltri sguinzaglia, e frodi nuove ordisce.
     Sul capo mio bronzea si aggrava intanto
     La notte; e ne la notte un occhio enorme
     Vigila: un occhio eternamente aperto,
     Che i miei pensieri, i miei palpiti spia,
     E forando l’immensa ombra, perpetuamente
     il mio capo, il petto mio trafigge.»