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46 ricordi di londra.

torno a un libro, per tenerci in casa quattro maestri di lingue, per fare un viaggio in Africa, per poter offrire insieme all’amore un diadema di rubini e un palazzo di granito.

Andai lo stesso giorno a vedere quella rinomata birreria di Barklay, che paga allo Stato un’imposta di quattro milioni e mezzo di lire, e consuma anno per anno trecento mila ettolitri d’orzo. Dopo aver girato un pezzo per le strade d’un quartiere di Southwark in cerca della porta, domandai, e mi fu fatto capire, con mia gran meraviglia, che mi trovavo già nella birreria, e che fin allora non avevo fatto che passeggiare fra le sue mura. — Ma chiamatela città di Barklay! — dissi poi al custode che m’accompagnava. Il flemmatico inglese sorrise, e si diffuse per gratitudine in minute spiegazioni, facendomi girare per gl’interminabili labirinti di quegli edifizi, intorno a laghi di spuma, in mezzo a botti titaniche, e a fragorose cascate di birra; e quando infine domandai un po’ di tregua per le mie gambe, mi condusse a riposare sur un alto terrazzo, di dove accennando col braccio teso, come fa un generale l’accampamento, quell’ampio giro di case, di magazzeni, di scuderie, di granai e di cortili, che formano la birreria Barklay: Ecco, — disse alteramente, — la più grande birreria della terra!


Quella medesima sera, ripassai dinanzi alla Banca d’Inghilterra, vidi la Borsa, mi trattenni un po’ in quel crocicchio di strade dove ferve il gran commercio di Londra: e poi, tutto compreso di quello spettacolo, tornai a casa agitato da una smania non mai provata di buttarmi agli affari e di ammassare ricchezze. — Ma che scrivere! — dicevo tra me. — Azione vuol essere! Cos’è questo passar la vita a spacciar parole? È una vita rettorica. Bisogna lavorar sul sodo. Grazie al cielo sono ancora in tempo. Ci sono ben altri che si son dati al commerciò più tardi di me, e sono ancora riusciti a farsi una fortuna.