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popolati da cento e cento città, ricche tutte di memorie storiche, o favolose. La vista si stende da Roma che si scorge confusa fra le nebbie nella pianura, fino ad Arpino patria di Cicerone, che si vede biancheggiare sui monti azzurri nel regno di Napoli. Questa passeggiata supera per bellezza quella del monte Pincio di Roma, dalla quale non si scorge che la città eterna, mentre di qui si vedono due vaste regioni, numero infinito di città, e non meno di quattro catene di monti.
L’aria vi è fina, quasi cruda, e va agitando di continuo le rose selvatiche, e le piante di ginestro, le quali crescono fra quegli scogli. Tutto ricorda tempi antichissimi, primitivi, di fiera e selvaggia natura, e l’animo ne rimane profondamente scosso.
Salii più alto sul monte per arrivare ai rinomati muri ciclopici, i quali quivi pure come in tutte le città del Lazio circondavano la fortezza o la rocca, piombando obbliquamente sul pendio del monte. La connessione dei loro massi voluminosi, è tuttora precisa, quasi l’opera fosse stata ultimata ieri soltanto; qua e là si aprono piccole porte, di stile etrusco. Al fine di una lunga linea di muro, esiste tuttora la grandiosa, pittorica e rinomata porta ciclopica, la quale serve tuttora oggidì. È formata di potenti massi di forma quasi quadrangolare, i quali formano un arco ottuso, ultimato al vertice dal masso che serve di chiave alla volta. L’aspetto gigantesco di queste mura, la tinta cupa che hanno ricevuto dal tempo, le piante selvaggie che li ricoprono, l’imponenza dei monti ai quali si appoggiano, producono una impressione che con parole non si può descrivere. Non si può paragonare che a quella del mare in burrasca, tutto quivi è grandiose, nulla havvi di meschino.
Oltrepassata questa porta, mi trovai sul lato opposto del monte, di dove la vista spazia su tutto quanto il Lazio. Esiste colà pure una grandiosa cisterna o vasca di forma circolare scavata nello scoglio, la quale non ha meno di trenta passi di diametro. Dessa serve tuttora, imperocchè