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I Normanni accettarono queste forme, e dai Saraceni tolsero l’arco a sesto acuto, e l’uso dei rabeschi per le pitture murali. Finalmente, conservarono pure il tipo della basilica romana in uso nel resto d’Italia, vale a dire una navata lunga, divisa da due file di colonne, le quali sostengono il tetto a solaio. Dessi collocarono questa navata latina davanti al santuario, ed a vece di destinare, come nelle antiche basiliche le colonne a sopportare un architrave, portarono sopra quelle gli archi a sesto acuto. riunendo in una le tre forme di architettura, e dando origine a quell’architettura speciale, la quale fu in uso in tutta quanta la Sicilia, e che poco a poco si venne accostando all’architettura gotica, e finì per confondersi con questa.

Si possono consultare utilmente a questo riguardo l’opera di Serra di Falco intorno a Monreale ed altre chiese Sicule-normanne; quelle di Hittorf, e di Zanth sulla architettura moderna della Sicilia, non che le descrizioni di Monreale, di Lelli, e di del Giudice.

Il duomo, il quale riunisce i tre caratteri di cui abbiamo fatto parola più sopra, è della lunghezza di trecento settantadue palmi, della larghezza nella facciata di cento settanta quattro, e l’altezza del campanile o torre, si è di cento cinquanta quattro palmi. Nell’entrare nella chiesa, chiamano a se l’attenzione le porte gittate in bronzo. Parecchi archi poco spezzati, ed ornati di ricchi arabeschi, sostenuti da pilastri con mosaici, e sculture in marmo nel vano, sorgono sopra quelle porte, ed una iscrizione latina del 1186 indica quale fonditore di esse Bonanno da Pisa, quello stesso il quale gittò le porte, in bronzo del duomo di quest’ultima città. I rilievi divisi in quaranta due campi rappresentano fatti dell’antico o del nuovo testamento; e per pregio artistico si possono dire a livello dei mosaici bizantini. Le figure sono dure, magre, ma colpiscono però per il loro carattere d’ingenuità, che si potrebbe dire puerile. Sono poi curiosissime le iscrizioni in lingua volgare dell’epoca, che accompagnano le figure, le quali corrispondono pienamente alla lingua adoperata