Pagina:Rime (Andreini).djvu/178

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Ei non mi danna, e non mi trahe di pene;
     Nè si mostra al mio mal crudo, ò pietoso,
     Ma pur come suol far trà due mi tene.
Così lo stato mio sempr’è dubbioso;
     E se scoprirli il mio tormento bramo
     Tanto gli hò à dir, che ’ncominciar non oso.
Io pur son presa come pesce à l’hamo,
     O come Damma da veloci cani ,
     O come novo uccello al visco in ramo.
Quanto sièno i tuo’ colpi acerbi, e strani,
     E quanto ardenti sièn le tue facelle
     Amore io ’l sò, che ’l provo à le tue mani.
Nemica destra il cor mi parte, e svelle
     S’avvien, ch’i’ veggia per mia fiera sorte
     Torcer da me le mie fatali stelle.
Romita Valle del mio mal consorte,
     E voi fronzute selve, e cavi sassi
     Quante volte m’udiste chiamar morte?
Com’Aspe al mio parlar quel crudo stassi,
     E pur lo prego, e vado notte, e giorno
     Perdendo inutilmente tanti passi.
Io deverei fuggir quel viso adorno;
     Ma seguon gli occhi il lor vivace lume,
     Et io, che son di cera al foco torno.
Havrai Fera crudel sol per costume
     Di goder del mio duolo, e trarmi sempre
     De gli occhi tristi un doloroso fiume?
Sostener de’ miei guai le dure tempre,
     E l’alterezza tua soffrir tacendo
     Per me non basto, e par, ch’io me ne stempre.
Ahi pur convien, ch’io mi disfaccia ardendo
     Seguendo ogn’hor la ’ncominciata impresa,
     Ond’hò già molto amaro, e più n’attendo.


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