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22 il re lear


Magg. Con vostra licenza.                                   (esce)

Lear. Che ha detto colui? Fate ritornare il malandrino. — Il mio pazzo, olà! Credo che il mondo siasi addormentato. — Ebbene, che ha detto l’insolente?

Un cav. (ritornando) Ei disse, milord, che vostra figlia non istà bene.

Lear. Perchè non ritornò da me l’impudente, quando lo chiamai?

Cav. Signore, ei mi rispose colla più aspra maniera, che nol voleva.

Lear. Nol voleva?

Cav. Milord, non so da che proceda, ma, secondo me, Vostra Altezza non trova qui quella rispettosa affezione a cui era avvezza: lo zelo e l’amore si raffreddano ogni dì, non che nei famigli di questa casa, nel duca e in vostra figlia stessa.

Lear. Ah! che dici tu?

Cav. Vi chieggo perdono, signore, se erro nel mio giudizio; ma il dover mio mi obbliga a rompere il silenzio quando veggo offesa l’Altezza Vostra.

Lear. Tu mi ricordi un’idea che m’era già passata pel capo. Avvisto mi sono da poco in qua d’un eccesso di negligenza e di tepore. Ma rimproverato m’era questo sospetto come prodotto di una immaginazione troppo suscettiva; nè volli vedere in quella apparente trascuranza un segno di scortesia e di freddezza premeditata. Baderovvi ora. Ma dov’è il mio buffone? Nol vidi da due giorni.

Cav. Da che la mia giovine signora è partita per la Francia, il vostro pazzo, signore, ha molto gemuto fra sè.

Lear. Non parliamo di ciò; me n’era accorto. Andate, e dite a mia figlia che voglio parlarle. — Cercate quindi del mio buffone (rientra il maggiordomo) Oh! voi messere, voi messere, appressatevi. Chi sono io, signore?

Magg. Il padre di milady.

Lear. Il padre di milady! malandrino di milord! Come? miserabile! malnato! vile schiavo!

Magg. Nulla di tutto ciò sono io, milord: e vi prego di perdonarmi.     (andandosene)

Lear. Osi tu figgermi gli occhi nel volto, iniquo temerario?

(lo percuote)

Magg. Non mi lascierò malmenare, milord.

Kent. Nè atterrar tampoco, vil giuocatore di bocchie.

(sferzandolo nelle calcagna)