Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
ATTO SECONDO | 253 |
me pel pranzo? L’albergo mio è anche alla Fenice? Avevi smarrita la ragione per farmi risposte così stravaganti?
Drom. Quali risposte, signore, di grazia? Quando mai vi parlai io in tal modo?
Ant. Un momento fa, in questo medesimo luogo.
Drom. Io non v’aveva più riveduto, dacchè mi mandaste al Centauro colla somma affidatami.
Ant. Come, furfante? Tu mi negasti d’aver ricevuto quel deposito, e mi parlasti di non so qual signora, di non so qual pranzo, e d’altre follie di cui t’ho, spero, assai bene guarito.
Drom. Mi piace di vedervi di così lieto umore: ma a che tende questo scherzo? Vi prego, signor mio, di spiegarvi.
Ant. Tu vuoi schernirmi ancora? Tu credi ch’io celii? Guarda s’io fo da senno. (lo percuote)
Drom. Fermatevi, signore, in nome di Dio! In verità, la vostra beffa diviene ora una cosa assai grave. Qual ragione avete per battermi così?
Ant. Perchè io qualche volta ho la bontà d’intrattenermi teco famigliarmente di cianciare con te, la tua insolenza dovrà prendersi di me tal sollazzo? Giusto è quando il sole splende che gli insetti aleggino ne’ suoi raggi, ma essi si debbono ascondere allorchè egli ritira la sua luce. Quando tu vorrai ricrearti con me, esamina il mio volto, interroga la mia fisonomia, e conforma la tua condotta a’ miei sguardi, o io ti farò entrare per forza la mia lezione nella testa.
Drom. Ma di grazia, signore, perchè mi battete?
Ant. Non lo sai ancora?
Drom. No, veramente, signore.
Ant. Debbo io dirti perchè?
Drom. Sì, avvegnachè ogni cosa ha il suo perchè.
Ant. Prima di tutto, per esserti beffato di me: poi, per esser tornato con quella faccia asciutta.
Drom. Fu mai alcun innocente manomesso più di me?
Ant. Bando alle celie, e dimmi se è ora di pranzo. Ma aspetta; chi è che ne fa cenno di là in fondo? (entrano Adriana e Luciana)
Adr. Sì, sì, Antifolo, prendi un aspetto feroce e malcontento: tu riserbi i tuoi dolci sguardi per qualch’altra amante: io non sono più la tua Adriana, la tua cara sposa. Vi fu un tempo in cui da te stesso, e senz’esservi eccitato, tu giuravi che non vi era musica più gradita al tuo orecchio della mia voce, che non v’era oggetto più caro ai tuoi occhi di me che l’immagine mia ti