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una sola volta il dì, e l’ordinarie vivande eran poche erbe, due lumache, una frittata d’un pajo d’uova, poco pane ed altrettanto di vino, tutto per risparmio con aceto condito; che olio e burro se alcuno de’ due servi durante l’anno in casa il Padrone annasarono, non voglia. Tutte queste vivande non erano recate sulle tavole pel solo Cavaliere, ma eziandio d’esse aveano a vivere lo staffiere e la fante. Accattava talvolta il sale ed il lume dal vicinato per non aver a spendere quattrini. Il suo vestire poi era sì misero che mettea compassione a vederlo. E talora degli amici - benché pochi n’avesse - venendo dall’intollerabile sua avarizia proverbiato, con dirgli: «Messere, chi ha il cavallo in istalla può andare a pié», soleva loro come Socrate rispondere, «È [che] non si vive a un bel bisogno - come voi fate a credere - sol per mangiare; ma bensì è [che] mangiasi per vivere. E s’io altresì non vesto poi tanto pomposamente come altri, fo da un par mio usando umiltà, cui dovrebbono tutti da me apparare». Il verno poi, affine di non abbruciar legne, godeva starsi tutto solo alla stufa di Diogene, come tuttora fanno le genti d’Iberia. E allorché di casa uscire faceva pensiero, ordini pressanti alla fante imponeva che, quando alcuno di fuoco od acqua ad imprestanza ne la chiedesse, tutto tutto negar gli dovrebbe, l’uno come spento, l’altra perché rasciugata nella fonte, e soggiungeale che,

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