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duoi ci ascolta, ne sia giudice, e poscia a chi di noi si ha il torto ce lo dica col malanno, che sono contentissima». Io allora composto il viso tra il serio ed il piacevole, seduta sopra la sedia mia, con un tuono di voce alquanto più forte che non ebbe già quel castron di Messer Niccola il Giudice sbracato, rivolta al calamajo così gli dissi: «O tu, che sì alta guerra movesti alla Penna tua sorella, sappi che di queste tue sciagure la meno parte ne ha; ben io holla intieramente, che quando ghiribizzo mi viene di malmenare col tempo la povera carta, la fo fare a modo mio, tutte ricercandoti le vene, collo spremerti quel po’ di succo che in esse per avventura ti scorreva. Laonde a torto la condanni, e poi pongasi il caso che ragione stia per te, credi tu che senza lei saresti quello che tu ora sei? mai no, che anzi nel sempiterno obblio con infiniti altri scioperati calamaj ti converrebbe assonnare, ove poco o nulla ti gioverebbe l’essere pieno zeppo d’umori, e saresti come que’ sotterranei fiumi che, per nascoste vie d’umor gonfi e spumanti, al mare sen vanno, e là si perdono senza che all’occhio uman noti sieno».

A tali detti miei si tacque contenta la saggia penna, ma il calamajo borbottando non so che parole proseguì a dire; quando fui sorpresa da improvviso rustico suono che all’orecchio diletto tal porgendomi, sovvenir mi fece della piacevole e tranquilla vita,

che