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iscrivere, alla medesima un giorno m’appressai, ecco che odo un certo cicaleccio, che Iddio glielo perdoni. Da prima io stetti ritta ritta ad origliare chi mai fossero le persone litiganti; ma da sezzo, fattami più d’appresso al mio tavolino, udij - cosa veramente ridevole per chi avesse mille miglia di lontano cacciato in bando il riso - che la penna mia altercava col calamajo, perché da sé rimuoverla e’ tentava. Diceva egli quel parolajo del mio calamajo: «Va’ via di qua indiscreta, e non vedi tu ch’io sono arso e distrutto? e che ombra d’umore, non che umore, in me più non evvi? or sarai contenta, che nulla più da me trar non ti resta; ma perciò vittoria non ti creder a un bel bisogno di riportare, che s’io secco per te sono, affè, che tu ancora senza di me d’ora innanzi maghera e smunta come una vecchierella vo’ che diventi, per la qual cosa ti sarà forza di starti ne’ cantucci delle scopature, onde dalla Donna nostra con tuo rimorso e vergogna eterna sarai gettata. Qui ti so dir io che del povero calamajo ti sovverrà, e se le parole per soverchio dolore non ti mancheranno in bocca, dirai talora: “Oh foss’io stata più discreta almeno, che qui ora non sarei”». Volea più seguir a dire egli, quando la penna, ristucca di sì lunga diceria, lo interruppe modestamente così dicendo:

«Il soverchio caldo, fratello, e non io, fu che tutto delle vene l’umor ti trasse; or se dico vero, la Donna mia, che tutti e

duoi