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un vascello in mare. Mi venne voglia d’incidere una iscrizione sulla corteccia di quella canna. Qualunque siasi il piacere che ne’ miei viaggi ho provato al vedere una statua od un altro monumento d’antichità, ne ho sempre gustato uno maggiore leggendo una bella iscrizione. Parmi allora che quella pietra mandi fuori una voce umana, che, trapassati i secoli e giunta fin qui, si volga all’uomo in mezzo ai deserti, e lo avverta che non è solo, e che in que’ medesimi luoghi altri uomini hanno come lui sentito, pensato e sofferto: che se l’iscrizione appartiene a qualche popolo che più non esiste, essa allora trasporta il nostro spirito ne’ campi dell’infinito, e gl’ispira il sentimento della propria immortalità, mostrandogli come, caduti gl’imperi, il pensiero vive ancora.

Scrissi dunque sul piccolo albero da bandiera di Paolo e Virginia questi versi d’Orazio:

      ...Fratres Helenæ, lucida sidera,
          Ventorumque regat pater,
          Obstrictis aliis, præter iapyga.

«Possano i fratelli d’Elena, stelle come voi, bellissime, ed il padre de’ venti guidarvi, nè facciano spirare alcun altro vento fuorchè zeffiro.»

E sulla scorza di un tatamacco, all’ombra del quale sedendo Paolo contemplava da lunge il mare agitato, io scolpii questo verso di Virgilio:

      Fortunatus et illos deos qui novit agrestes.

«Felice, figliuol mio, colui che altri dei non conosce tranne quelli de’ campi!»

E quest’altro sulla porta della capanna della signora De la Tour, che era il luogo della loro riunione:

      At secura quies, et nescia fallere vita.

«Qui sta una coscienza candida ed una vita scevra d’inganni.»

Ma a Virginia non garbava gran fatto il mio latino. Ella diceva che quella cosa ch’io aveva scritto al piede della sua banderuola era troppo lunga e troppo erudita: «Mi sarebbe piaciuto più...» soggiungeva ella, sem-