Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
il lago titicaca | 107 |
scendere nel lago non era cosa difficile, ma le sponde non permettevano di approdare.
— È anche a me serbata la morte? mormorò con voce triste. È proprio vero che i tesori degli Inchi portano sfortuna?... Ah! Smoky, quale eredità hai tu lasciato!... Povero Morgan, povero Burthon! povero O’Connor!...
Due lagrime scesero sulle scarne gote dell’ingegnere e un singhiozzo gli lacerò il petto.
Ad un tratto giunsero ai suoi orecchi delle voci umane. Si trascinò sull’orlo della rupe e guardò.
Un gran canotto, girato un promontorio formato dalla montagna, si avvicinava rapidamente. Lo montavano sette uomini, sette indiani dalla pelle rossiccia. Sei erano semi-nudi e remavano, il settimo, coperto da una lunga e bianca veste stretta ai fianchi da una fascia rossa, stava seduto a poppa. Aveva dei braccialetti d’oro ai polsi, dei grandi orecchini rotondi agli orecchi e una penna rossa fissata in una pezzuola che gli girava attorno al capo.
— Aiuto! gridò sir John. Aiuto!...
I sette indiani alzarono la testa. Quattro di essi lasciarono subito i remi e raccolti i fucili che stavano in fondo al canotto li puntarono su di lui gettando urla di rabbia.
Il capo che stava seduto a poppa e che aveva impugnato una scure, con un gesto imperioso fece abbassare i fucili e indirizzò all’ingegnere alcune parole in una lingua sconosciuta.
— Che vuoi? chiese sir John in ispagnuolo.
— Chi sei? domandò allora l’indiano nell’istessa lingua.
— Un povero bianco che chiede aiuto. Che lago è questo?