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la festa delle lanterne 11


— Aspettate qui gli ordini del mio padrone, — disse il maggiordomo, inchinandosi fino a terra.

Rokoff, ch’era passato di stupore in stupore, s’era fermato sotto la lampada, girando all’intorno uno sguardo attonito.

Quella stanza, quantunque ammobiliata semplicemente, non usando i cinesi mobili pesanti, era così graziosa, da far stupire lo stesso Fedoro, quantunque da lunghi anni avesse percorso il Celeste Impero, visitando tutte le città costiere.

Era un quadrilatero perfetto, col pavimento coperto di piastre di porcellana azzurra che avevano dei dolci riflessi sotto la luce della lampada; colle pareti coperte di quella meravigliosa carta di Tung che invano gli europei hanno cercato di imitare, a fiorami dorati, che parevano ricamati, e col soffitto a quadri pazientemente intagliati.

Le finestre, piccolissime, avevano tende di seta trasparente che coprivano i vetri di talco.

Nel mezzo due letti massicci, bassi, con coperte di seta ricamata e guancialini di sottilissima tela fiorata; negli angoli, invece, leggieri tavoli laccati, scaffali di ebano, sputacchiere e vasi istoriati pieni di peonie fiammeggianti, e sedie di bambù che avevano certe vernici che parevano strati di vetro.

Su tutti i mobili poi, vasetti, vasettini, statuette, palle d’avorio traforate, ninnoli d’ogni specie, di porcellana, di ebano, di osso, di talco, di madreperla, di oro e d’argento, specchi di metallo a rilievi e profumiere.

— Non avrei mai supposto che questi cinesi sfoggiassero tanto lusso nelle loro case, — disse Rokoff. — Che cosa ne dici, Fedoro?

— Che vedrai ben altre cose, — rispose il giovine.

— E il padrone di questa dimora?

— Spero che si farà vedere presto. Noi siamo ospiti che valgono delle centinaia di migliaia di lire ed i cinesi ci tengono al danaro anche... —

Un colpo bussato alla porta, gl’interruppe la frase.

Il maggiordomo entrava portando due giganteschi biglietti di carta rossa, lunghi più d’un metro e larghi quasi altrettanto, sui quali si vedevano delle lettere adorne di geroglifici mostruosi e tre figure rappresentanti un fanciullo, un mandarino e un vecchio seduto presso una cicogna, cioè l’emblema della longevità.

Li depose su un tavolo, poi uscì senza aver pronunciato una parola.