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CAPITOLO I.

Le belve umane.

Un urlo immenso, terribile, che sembra uscito dalle gole di cento fiere in furore, scoppia come un colpo di tuono nelle profondità della stiva, facendo fuggire precipitosamente le sule fuliginose ed i piccoli petrelli che si erano posati sui pennoni della nave.

A quell’urlo che pare annunci lo scatenarsi d’una bufera ben più tremenda di quelle che sconvolgono gli oceani, i marinai sparsi a prora ed a poppa interrompono la loro manovra e si guardano in viso con occhi atterriti.

Anche il capitano che passeggia sulla passerella si arresta bruscamente e un rapido pallore si diffonde sulla sua pelle bruciata dal sole dei tropici.

Un giovane marinaio che si trova sul castello di prora lascia andare la scotta della trinchettina e lancia un rapido sguardo sul mare.

— I pesci-cani sono giunti ancora! — esclama. — Un altro uomo da divorare!

— Ed è il decimo!

— Ehi, bosmano! Puoi far preparare un’altra amaca ed una palla di cannone. —

Un vecchio marinaio dalle spalle un po’ curve, col petto nudo e villoso come quello d’una scimmia ed il volto coperto di pelo fino quasi agli occhi, s’arrampica lestamente sulla murata, aggrappandosi alle sartie.

— Vedi, bosmano? — domanda il giovane marinaio che ha annunciata la presenza delle tigri del mare. — Hanno fiutato un altro morto! —

Tre enormi pesci-cani del genere dei charcharias, lunghi da cinque a sei metri, emergono le loro teste mostruose e mostrano i loro denti triangolari e frastagliati che guerniscono le loro immense bocche semi-circolari.