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Il prigioniero 337


Dopo essersi ben assicurati che nessun essere umano percorreva la valletta, si sdraiarono dietro le rocce e diedero il sacco ad una parte delle provviste.

Un canadese, per maggior precauzione, vegliava, steso dietro un enorme masso che si teneva quasi in bilico presso l’orlo della piattaforma.

Terminato il pasto, accesero le pipe, aspettando pazientemente che il loro uomo giungesse o da una parte o dall’altra; per piombargli addosso e portarlo via.

Le ore passarono senza che nulla accadesse. A mezzodì scorsero ancora una piccola colonna di fumo alzarsi sul picco gigante ed una terza un po’ prima del tramonto.

Rokoff cominciava molto a dubitare delle speranze del capitano, quando, nel momento in cui il sole si tuffava nell’Atlantico, vide il canadese di guardia lasciare precipitosamente il suo posto e ripiegarsi verso l’accampamento improvvisato.

— Che cosa avete scorto? — chiesero ad una voce Ranzoff ed il cosacco, alzandosi rapidamente.

— Degli uomini scendono la valle, — rispose il canadese.

— Quanti? — chiese il capitano dello Sparviero.

— Sette.

— Armati?

— Sì, hanno dei fucili.

— E null’altro?

— Mi pare di averli veduti muniti di reti.

— Che vadano a pescare? — chiese Rokoff.

— O a cacciare le testuggini? — chiese invece il capitano dello Sparviero. — L’isola è molto frequentata da quegli anfibi.

— Buona occasione per fare dei prigionieri e guadagnare nel medesimo tempo una splendida cena.

Mi ricordo sempre di quelle che abbiamo prese a Trinità.

— Siete un ghiottone numero uno, signor Rokoff.

— Sono un cosacco.

— Diavoli di cosacchi!... Voi mangiate, voi bevete, voi fumate e voi uccidete colla scusa di essere nati nelle steppe del Don!

— Che cosa volete? Noi siamo fatti così e nessuno potrebbe cambiarci, — rispose Rokoff.

— Ebbene vediamo che cosa possiamo fare. Affiderò a voi la parte principale. —