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capitolo ii. — il paese dell’oro. 133

— Sono pochi, señor. Quando sono ricchi scialacquano tutto nelle taverne di San Francisco, o di Sacramento, o di Monterey od al giuoco, sperando di riempire ancora le loro borse con poche fortunate giornate di lavoro, nel fondo dei polverosi claim.

— Sono i pozzi, questi claim?

— Sì, marchese.

— Rendono più delle sabbie?

— Talvolta danno delle ricchezze favolose, poichè in quei pozzi si trovano le pepite, ossia i veri ciottoli d’oro.

— E nelle sabbie dei fiumi cosa trovano, invece?

— Le pagliuzze d’oro.

— È più facile questo secondo lavoro?

— Bisogna rimanere immersi nell’acqua fino alle anche per parecchie ore, ed essendo le correnti dei nostri fiumi assai fredde, cagionano gravi malanni.

— Il lavoro delle miniere dura tutto l’anno?

— No, ai primi freddi si abbandonano i pozzi, perchè l’acqua che serve per la pulitura della terra aurifera, gela nei canali. Fra pochi giorni tutti i minatori torneranno alla costa, in attesa della primavera, ed incontreremo numerose bande. Quest’anno il freddo tarda, ma sulle vette della Sierra Nevada la neve è già caduta e i minatori, da qualche settimana, sono scesi nella pianura.

— E noi invece saliremo la Sierra?

— È necessario, marchese, e temo che avremo da faticare assai per aprirci il passo fra le nevi, ma non ostante passeremo.

— Troveremo Indiani lassù?

— No, marchese; l’indiano è ancora lontano. L’invasione dei bianchi lo ha cacciato da questi luoghi e vive là, verso l’est, fra i deserti salati e le grandi praterie. Là egli attende l’uomo bianco; là egli aspetta l’invasore per strappargli la capigliatura ed ornarne il proprio wigwan!1



  1. Tenda.