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il treno volante 127


— Andiamo a vedere dove è andato a cacciarsi quel poltrone di Sokol — disse. — Gli mostrerò io se gli Europei hanno paura.

Attraversò lo spazio libero e, passando di tronco in tronco, si diresse verso il fiume, cercando di non far rumore per non allarmare i pachidermi.

Gli bastarono cinque minuti per giungere sulla riva.

Gli elefanti si trovavano a cinquanta metri da lui. Erano saliti su di un isolotto, divorando ingordamente le foglie di alcuni alberi che crescevano su quel piccolo tratto di terra.

Trecento metri sopra il suo capo, il tedesco vedeva il Germania librarsi al di sopra del baobab e i suoi compagni seduti sul parapetto della piattaforma.

La luna faceva scintillare le canne dei loro fucili.

— Aspettano anche essi? — si disse. — E Sokol, dove sarà andato? Io non lo vedo in alcun luogo. Che qualche animale lo abbia ucciso? Ma no, avrei udito il suo grido.

Molto inquieto per la misteriosa sparizione del negro, discese il fiume per due o trecento metri, credendo di trovarlo imboscato in qualche luogo; poi, convinto che fosse stato divorato o che fosse tornato al dirigibile, rimontò la riva, risoluto ad affrontare i pachidermi.

— Farò quello che potrò — aggiunse. — Il greco e l’arabo faranno il resto.

Si nascose fra le radici di un nopale e attese che gli elefanti si accostassero per essere più certo dei suoi colpi.

I pachidermi, sollazzatisi e calmata la fame, si disponevano a tornare verso la riva; alla loro testa marciava il vecchio maschio, di statura mostruosa, e con delle zanne lunghissime.

Era giunto a circa trenta passi dalla riva, quando il tedesco lo vide arrestarsi e lo udì aspirare rumorosamente l’aria agitando la proboscide dall’alto in basso.

— È inquieto — moromorò il cacciatore. — Che mi abbia fiutato? Non lasciamolo scappare.

Levò il fucile e lo mirò alla giuntura della spalla destra. È questo uno dei punti vulnerabili, essendo la pelle di quei colossi