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22 | emilio salgari |
— Un vero treno volante.
— Sono ansioso di vederlo.
— A quest’ora tutte le casse devono essere già state trasportate a casa tua.
— E quanti uomini potrà portare? — chiese l’arabo.
— Anche venti, cinquanta, cento — disse il tedesco. — Però non ne porterà che cinque: noi e due servi.
— Condurrò con me Heggia e Sokol.
— Chi è questo Sokol? — chiese Matteo.
— Un negro dell’Uniamesi, che conosce benissimo il paese che dovremo attraversare, e che parla tutti i dialetti dell’Uganda.
— Fidato?
— Lo credo — rispose l’arabo.
— Ottone — disse il greco, alzandosi, — vieni a casa mia.
— Quando verrete a prendermi? — chiese l’arabo.
— Domani notte, fra l’una e le due.
— Col pallone?
— Ci fermeremo sopra la vostra terrazza — disse il tedesco. — Non avrete da far altro che salire per una scala di corda.
— Pallone meraviglioso! E le armi ed i viveri? Devo prepararli?
— Non vi occupate di nulla — disse il tedesco. — Tutt’al più ponete in due casse di cinquanta chilogrammi ciascuna degli oggetti di scambio e dei regali da farsi ai Sultani africani.
— Se me lo permetterete, ne porterò qauttro delle casse. Vi metterò dentro tutto ciò che è più apprezzato da quei tirannelli.
— Duecento chilogrammi non mi danno alcun fastidio — rispose il tedesco. — A domani notte.
— Sarò sulla terrazza con le casse e coi miei servi — disse l’arabo.
Vuotarono alcune tazze di vino bianco che l’arabo aveva avuto la cortesia di far recare, quantunque egli, da mussulmano convinto, non ne bevesse; poi si strinsero la mano.
— Volete che vi faccia scortare da Heggia? — domandò l’arabo.