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della pistola che teneva alla cintura, abbassò la testa e tornò umile.

— M’intendi? — gridò El-Kabir.

— Sì, padrone.

— Rimarrai qui.

— Rimarrò.

— E se non mi obbedisci, ti ammazzo!

— Lascialo andare — disse Matteo.

— No, rimarrà qui. Il padrone sono io!

— Scendete! — gridò il capo dei cavalieri, il quale cominciava a perdere la pazienza.

— Siamo da te, Ben-Zuf — rispose El-Kabir.

Si armarono dei mauser, si misero nella fascia delle rivoltelle, presero una cassetta contenente doni destinati al sultano e scesero la scala di corda.

Il capo della scorta diede a tutti il selam, ossia il benvenuto, poi strinse la mano all’arabo, dicendogli:

— Hai fatto bene a farti riconoscere, poichè avevo avuto l’ordine di dare battaglia al mostro volante e di distruggerlo.

«Io non so che razza di uccello sia quello che vi porta; ti posso però dire che ha spaventato immensamente il nostro popolo, il quale temeva di venire decimato dalla bestia gigante.

— Ti ho detto che non è un uccello. È semplicemente un pallone.

— Non so che cosa sia un pallone. Per me è un mostro che fa paura e non mi farai cambiare d’opinione.

— Ti lascio nella tua idea, Ben-Zuf.

— Sanno cavalcare i tuoi amici?

— Sì — rispose Matteo che comprendeva l’arabo.

Il capo ordinò a tre dei suoi uomini di cedere le loro cavalcature all’arabo ed ai due europei, quindi la truppa si rimise in marcia verso il villaggio.

Prima di allontanarsi, Ottone e Matteo si erano accorti, non senza inquietudine, che dieci cavalieri eransi staccati e che ave-