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La ritirata di Diaz. 313

— Non certo i tuoi amici.

— Dei Tupy?

— Od altri che non saranno meno pericolosi per noi. I Caheti hanno emigrato verso l’interno e quelli non sono migliori dei Tupy.

— Ecco della gente che ci farà perdere del tempo troppo prezioso. Se ripartissimo?

— Non ti consiglierei. La notte è ancora oscura e potremmo trovare sulla nostra rotta delle canoe.

Attraversiamo l’isola e andiamo a vedere se sulla riva opposta si scorgono delle scialuppe. Io comincio a non essere tranquillo.

— Andiamo, — disse Diaz.

Presero le gravatane e s’inoltrarono attraverso le piante, scostando con precauzione le liane, non ignorando che le isole delle savane prossime alle rive, servivano sovente di rifugio ad animali pericolosi.

Un quarto d’ora dopo giungevano sull’opposta riva dell’isola. Guardarono attentamente sulle acque della laguna, senza scoprire nulla di sospetto.

— Finora non scorgo alcuna canoa, — disse Rospo Enfiato. — Possiamo prendere il largo da questa parte.

— Torniamo alla scialuppa dunque, — disse il marinaio. — È meglio che l’alba ci sorprenda lontani da quel fiumicello.

Stavano per ricacciarsi sotto le piante, quando Diaz si arrestò afferrando la gravatana.

— Cos’hai veduto? — chiese Rospo Enfiato, che gli veniva dietro.

— Un’ombra a scivolare silenziosamente verso quel gruppo di palme, — rispose il marinaio.

— Un uomo?

— Mi parve piuttosto un animale.

— Grosso?

— Quanto un giaguaro.

— Brutte bestie, — brontolò l’indiano facendo una smorfia.

In quell’istante udirono dietro le loro spalle un rauco miagolìo che terminò in un soffio poderoso.

— Siamo minacciati dinanzi e di dietro, — disse il marinaio, il quale cominciava ad inquietarsi. — Che quest’isola pulluli di belve? Era ben un giaguaro quello che ha miagolato?

— Sì, — rispose Rospo Enfiato.