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320 | Capitolo Trentaduesimo. |
il sud. L’alba non comparirà prima di due ore e protetti da questa oscurità forse potremo sfuggire ancora ai nostri nemici.
Coricati presso di me e aspettiamo. —
Si sdraiarono sul fondo della canoa, appoggiando le gravatane sulla prora, decisi a far uso delle loro terribili frecce.
Le quattro scialuppe s’accostavano con precauzione, su una sola fronte, mantenendo una distanza di trenta e quaranta passi l’una dall’altra.
Erano più lunghe e più larghe di quella montata dai fuggiaschi e ognuna portava non meno di una dozzina di selvaggi.
Sulle panche si vedevano gravatane e mazze da guerra.
— Chi sono? — chiese sottovoce Diaz.
— Tupy, — rispose Rospo Enfiato.
— Come mai quei cani si trovano qui?
— Ci hanno seguiti lungo il fiume senza che noi ce ne accorgessimo.
— Sono ben furbi quei bricconi.
— Vedremo se saranno capaci di prenderci.
— Non mi lascerò divorare senza aver prima consumate tutte le mie frecce e ne ho almeno una quindicina.
— Ed io altrettanto, — rispose l’indiano.
Le canoe erano giunte dinanzi ai paletuvieri, e si erano riunite, ad una sessantina di passi dal luogo ove si trovavano nascosti i due fuggiaschi.
— Sbarchiamo qui? — aveva comandato un indiano.
— Sì, — aveva risposto un altro che doveva essere il capo della spedizione a giudicarlo dal diadema di penne di tucano che portava sulla testa. — Devono aver preso terra su questo isolotto.
Dividiamoci in due drappelli e lasciate uno di noi a guardia delle canoe. —
Legarono i legnetti ad un tronco d’un paletuviero, poi, passando di ramo in ramo, i quaranta o cinquanta guerrieri scesero sull’isolotto.
— Preparerò loro un bel tiro, — mormorò Rospo Enfiato agli orecchi di Diaz.
— Che cosa vuoi fare?
— Impedire loro di seguirci.
— In quale modo?
— Lo vedrai. —