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260 | la città dell'oro |
sciamo sfuggire quest’occasione, non potremo più mai abbandonare quest’albero.
— Ma cosa vuoi fare? — chiese don Raffaele.
— Tirare a noi due o tre di quei tronchi d’albero.
— Ma per cosa farne?
— Una zattera.
Pel piantatore fu una rivelazione.
— Bravo Yaruri! — esclamò. — Vengo ad aiutarti!
Scesero le griselle e s’arrestarono a fior d’acqua. I tronchi d’albero, che scendevano la cateratta a precipizio, non erano lontani che poche centinaia di passi.
— Ti occorre un aiuto, cugino? — chiese Alonzo, preparandosi a lasciare l’albero.
— No, — rispose Yaruri, prevenendo la risposta di don Raffaele. — Noi due bastiamo; invece sorvegliate gl’indiani.
La corrente trascinava quei tronchi verso la scialuppa affondata, la quale occupava buona parte del canale. Yaruri, tenendosi aggrappato alle griselle con una sola mano, li aspettava, stringendo nella destra una corda che si era legata attorno al corpo.
— Padrone, — diss’egli rapidamente, porgendogli l’estremità della fune. — Tenete fermo e ritiratemi a bordo o la corrente mi trascinerà via!
Il primo tronco era vicino e stava per urtare contro