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184 Capitolo quarto


Quantunque non avessero armi da fuoco e fossero quasi a secco di viveri, avevano continuato a seguire le coste, ritornando verso la Nuova Zembla.

Di notte, per ripararsi dal freddo, così mi fu raccontato, erano costretti a scavarsi delle buche e cacciarsi in mezzo alla neve.

Dopo sei giorni erano rimasti senza viveri. Al settimo uno di loro cadde morto di stenti e di freddo.

Quei miseri si sentirono allora invadere dalla disperazione. Erano affamati, intirizziti dal freddo, ammalati e sfiniti.

Non pensarono nemmeno a seppellire il loro compagno. Abbandonarono la slitta che non erano più capaci di trascinare e la maggior parte dei loro oggetti e fuggirono verso il sud.

Dopo quattordici miglia cadevano tutti al suolo. Si erano già rassegnati ad attendere la morte, allorquando uno di essi, che si era un po’ allontanato, tornò presso i compagni annunciando di aver scoperto della legna e le tracce d’una slitta.

Quelle liete notizie danno un po’ di vigore a quei disgraziati. Accendono il fuoco, si riscaldano, poi due di loro partono per cercare qualche capanna.

Poco dopo essi venivano ricoverati da alcune famiglie di samoiedi che si erano stabilite su quella terra desolata.

Quelle povere genti si recarono tosto in cerca degli altri e li portarono alle proprie capanne, prodigando loro le più affettuose cure.

Quei sei marinai, così miracolosamente salvati, passarono parte della primavera fra i samoiedi, poi costruitasi una scialuppa poterono raggiungere l’isola di Vaigatz, dove poi i russi li rimpatriarono.

– E del capitano Tobiesen, cosa accadde? – domandò il carpentiere.

– Il governo norvegese, avvertito del caso disgraziato, mandò una nave a cercarlo, ma tutte le indagini riuscirono vane. La Fraya ed i suoi disgraziati marinai erano stati, probabilmente, inghiottiti dall’Oceano Polare. –