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Il naufragio della «Fraya» 183

tradiscono un’altra volta e va a ricoverarsi sotto la scialuppa che avevano abbandonata in quel luogo.

I due disgraziati non si risvegliarono che all’indomani. Convinti che i loro compagni fossero morti, presero possesso delle due capanne.

Il freddo era intenso e gli uragani si succedevano con una frequenza spaventosa, impedendo ai due marinai di percorrere i dintorni.

Sarebbero morti indubbiamente di fame se Olsen non avesse avuto l’idea di frugare la neve che attorniava le capanne.

Trovarono colà dei brani di carne, delle ossa e dei visceri di renna che i russi avevano gettati via e che il freddo, bene o male, aveva conservati.

Con quelle nauseanti provviste tirarono innanzi fino al giorno in cui ebbero la fortuna di uccidere una renna, ma quasi il destino avesse voluto infierire in tutti i modi contro quei disgraziati, s’accorgono di non aver nemmeno uno zolfanello per accendere il fuoco.

Fu ancora il mio amico che provvide alla salvezza d’entrambi con una felice ispirazione.

Strappa dalla barca un po’ di corda, la sfilaccia, ne fa quindi uno stoppaccio che pone su della polvere. Ecco ottenuto il fuoco che conservano gelosamente per tutto l’inverno, adoperando il legname di una delle due capanne.

Giunto finalmente l’aprile, i due marinai lasciavano per sempre la capanna che li aveva ricoverati durante la paurosa notte polare, e scendono lungo le coste meridionali della Nuova Zembla. Non avevano che tre cariche di polvere e pochissimi viveri.

Alcuni giorni dopo scoprivano alcune capanne. S’avanzano in quella direzione e cadono fra le braccia dei loro compagni che avevano pianti per morti.

– Quali? – chiese Torgrinsen.

– Quelli che avevano continuato la marcia, credendo che i due cacciatori fossero stati uccisi dall’uragano di neve, – rispose Andresen.

– Si erano dunque salvati?

– Avevano avuto questa fortuna. Come dissi, non si erano arrestati per attendere Olsen e Nielsen.