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capitolo xv — gli esquimesi della baia di baffin 243


– Un marinaio baleniere forse? chiese Charchot.

– Od un esquimese? disse Grinnell.

– Sia l’uno o l’altro, sarà sempre il benvenuto, rispose il mastro.

Intanto quella forma umana, che si sarebbe però potuta anche scambiare per un piccolo orso bianco ritto sulle zampe deretane, si era avanzata nella caverna con una certa esitazione, comparendo nel cerchio luminoso proiettato dalle due lampade. Guardò per qualche istante il mastro, la cui statura giganteggiava nella penombra, poi gridò con voce giuliva:

Nalegak tima! (capo, salute!)

Grinnell non si era ingannato. Quell’uomo era un vero esquimese, uno di quegli strani abitanti dei ghiacci e delle terre polari.

Era un uomo di statura inferiore alla media, ma di complessione robustissima, col viso largo, cogli zigomi assai sporgenti, la fronte stretta, il naso piatto, la bocca grande armata di denti acuti, cogli occhi piccoli e nerissimi e la capigliatura nera, abbondante, ma ruvida. Il colore della sua pelle era cupo, ma non si poteva ben definire sotto lo strato di grasso e di olio di foca che lo imbrattava.

Come tutti gli esquimesi, indossava una lunga casacca di pelle d’orso col pelo volto all’esterno e un panciotto di penne d’uccelli marini e calzava lunghi stivali di pelle di foca. Le sue armi consistevano in una fiocina composta d’un dente di narvalo lungo sei piedi, munito all’estremità d’una punta in forma di ferro di lancia, d’avorio, larga tre pollici, forata per passarvi la lenza ed in un largo coltello d’importazione danese od americana.

Il mastro, che conosceva la lingua esquimese, avendo