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il delitto del naufrago. 57


— Confidiamo in Dio! Non temo per me, ma per la mia povera Anna.

— Speriamo; signore. —

L’uragano cresceva sempre. I colpi di vento erano così impetuosi, che pareva uscissero a forza da un’immensa tromba collocata a pochi passi dalla nave. Scuotevano orribilmente gli alberi, sbrandellavano le vele, facevano volteggiare come pagliuzze i più grossi boscelli delle manovre e facevano fremere le grosse sartie e i grossi paterazzi in tal modo, da temere che si spezzassero.

Onde sopra onde si slanciavano addosso alla nave percuotendola fieramente a prua e a poppa, a babordo e a tribordo, facendo gemere i cordami ed i puntelli, spostando le imbarcazioni e aprendo delle brecce nelle murate. Pareva che si accanissero ad aprire i fianchi del legno, onde trascinarlo negli spaventosi baratri dell’Oceano Pacifico.

La notte era calata, una notte oscura come il fondo d’un barile di catrame. Non si vedevano che tenebre, le quali pareva si addensassero di momento in momento sempre più sull’oceano, quasi volessero rendere più pericolosa e più orrida la situazione della Nuova Georgia. Solamente all’orizzonte, di tratto in tratto balenava, e a quel rapido bagliore si vedevano correre sulla coperta i marinai coi capelli sciolti al vento, i volti pallidi, gli occhi smarriti e i panni inzuppati, e sul ponte di comando si vedeva spiccare l’alta statura del capitano Hill ed a prua la tetra figura del naufrago.

In mezzo agli urli della tempesta, ai sibili del vento e ai ruggiti delle onde si udivano a un tratto irrompere, dalle nere profondità della stiva, i potenti gridi delle dodici tigri, le quali, atterrite da quei fragori e da quelle scosse orribili, si dibattevano furiosamente dentro le gabbie.