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Ma come vedrò voi, ardenti e fumidi
Monti, dove Vulcan bollendo insolfasi,
Che gli occhi miei non sian bagnati ed umidi?
Perocchè, ove quell’acqua irata ingolfasi,
Ove più rutta al ciel la gran voragine,
E più grave l’odor ridonda ed olfasi;
Veder mi par la mia celeste immagine
Sedersi, e con diletto in quel gran fremito
Tener l’orecchie intente alle mie pagine.
O lasso, o dì miei volti in pianto e gemito!
Dove viva la amai, morta sospirola,
E per quell’orme ancor m’indrizzo e insemito.
Il giorno sol fra me contemplo, e mirola,
E la notte la chiamo a gridi altissimi;
Tal che sovente in fin qua giù ritirola.
Sovente il dardo ond’io stesso trafissimi.
Mi mostra in sogno entro i begli occhi, e dicemi:
Ecco il rimedio de’ tuoi pianti asprissimi.
E mentre star con lei piangendo licemi,
Avrei poter di far pietoso un aspide;
Sì cocenti sospir dal petto elicemi.
Nè grifo ebbe già mai terra Arimaspide
Sì crudo, oimè, ch’al dipartirsi subito
Non desiasse un cor di dura jaspide.
Ond’io rimango in sul sinistro cubito
Mirando, e parmi un sol che splenda e rutile;
E così verso lei gridar non dubito:
Qual tauro in selva con le corna mutile,
E quale arbusto senza vite o pampino,
Tal son io senza te, manco e disutile.

Summonzio.

Dunque esser può che dentro un cor si stampino
Sì fisse passion di cosa mobile,
E del foco già spento i sensi avvampino?