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Or poi che o nulli o pochi ti pareggiano
A cantar versi sì leggiadri e frottole,
Deh canta omai, che par che i tempi il chieggiano.

Ergasto.

Selvaggio mio, per queste oscure grottole
Filomena nè Progne vi si vedono;
Ma meste strigi ed importune nottole.
Primavera e suoi dì per me non riedono,
Nè trovo erbe o fioretti che mi gioveno;
Ma solo pruni e stecchi che ’l cor ledono.
Nubi mai da quest’aria non si moveno,
E veggio, quando i dì son chiari e tepidi,
Notti di verno, che tonando piovono.
Perisca il mondo, e non pensar ch’io trepidi;
Ma attendo sua ruina, e già considero
Che ’l cor s’adempia di pensier più lepidi.
Caggian baleni e tuon, quanti ne videro
I fier giganti in Flegra; e poi sommergasi
La terra e ’l ciel, ch’io già per me il desidero.
Come vuoi che ’l prostrato mio cor ergasi
A poner cura in gregge umile e povero,
Ch’io spero che fra lupi anzi dispergasi?
Non truovo tra gli affanni altro ricovero,
Che di sedermi solo a piè d’un acero
D’un faggio d’un abete ovver d’un sovero.
Che pensando a colei che ’l cor m’ha lacero,
Divento un ghiaccio, e di null’altra curomi,
Nè sento il duol ond’io mi struggo e macero.

Selvaggio.

Per maraviglia più ch’un sasso induromi,
Vedendoti parlar sì malinconico;
E ’n dimandarti alquanto rassicuromi.
Qual’è colei ch’ha ’l petto tanto erronico,
Che t’ha fatto cangiar volto e costume;
Dimmel, che con altrui mai noi comonico.