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106 l'istoria del concilio tridentino


Il pontefice, che era restato molto afflitto per la morte successa in fine del mese inanzi di Federico Borromeo suo nepote, al quale pensava di voltar tutta la grandezza della casa (avendolo maritato in una figlia del duca di Urbino, fattolo governator generale della Chiesa, con trattato di dargli anco il ducato di Camerino), e oppresso dalla gravezza del dolore, era incorso in una indisposizione pericolosa alla sua etá: recreato alquanto, applicò l’animo alle cose del concilio. Tenne diverse congregazioni per trovar temperamento sopra li dui canoni dell’instituzione e della residenzia, giudicati da tutta la corte molto pericolosi all’autoritá pontificia, e a ritrovar modo come provvedere alla prolissitá delli prelati nel dir le opinioni, come quella che portava il concilio in longo, lasciando una porta aperta a tutti quelli che volessero entrar ad attentare contra la sua dignitá. Sopra tutto gli dava molestia quello che dalli francesi era disegnato; massime che non riceveva mai lettere da Trento, nelle quali non si dicesse che o il Cardinal di Lorena o alcuno delli ambasciatori non facessero instanzia di riforma, con aggionta che se non avessero potuto riportar le provvisioni che ricercavano, le farebbono in casa loro; e che ben spesso facevano menzione di voler provvisione sopra le annate e prevenzioni, e altre cose proprie spettanti al pontefice romano. Deliberò di venir all’aperta con li francesi, e disse a quelli che erano in Roma che, avendosi egli tante volte offerto di trattar col re di quello che toccava li suoi propri dritti e venire ad amicabile composizione, e vedendo che li ministri del re in concilio sempre facevano menzione di volerne trattar nella sinodo, era risoluto di vedere se voleva romper con lui a sí aperta dissensione. Diede ordine per corrier espresso in Francia al suo noncio di parlarne. A Lorena scrisse che non si potevano proponer in concilio quelle materie senza contravvenir alle promesse espresse fatte dal re per mezzo di monsignor di Auxerre. Si querelò in consistoro della impertinenza de’ vescovi in Trento nell’allongar le materie per vanitá; esortò li cardinali a scrivere agli amici loro, e alli legati scrisse che adoperassero le minacce e l’autoritá, poiché le