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lettere di fra paolo sarpi. 279

dore fuor di Parigi; e lodo il pensiero di V.S. di non scrivere per altra via, perchè non mancano uccellatori di lettere, ed a Roma ne sono così sottili interpreti, che fanno ad esse dire tutto ciò che hanno in mente, come il pazzo la campana.

In Italia non abbiamo cosa nuova: solo è comparso quell’occhiale che fa vedere le cose lontane;1 il quale io ammiro molto per la bellezza dell’invenzione e per la dignità dell’arte, ma per uso della guerra nè in terra nè in mare, io non lo stimo niente.

L’armata de’ Turchi, finalmente, dopo gran cerimonie, è uscita. Contiene sessanta galere, con una grossa, ed alquanti altri legni. È andata in Alessandria d’Egitto, cred’io, per assicurare il casnà; cioè le entrate che di là si portano a Costantinopoli. Al ritorno capiterà alla Morea, e di là in Sicilia o in Calabria: il che forse non sarà; ma in ogni conto sarà cosa leggiera.

Le cose di Boemia si riferiscono qua in istato molto cattivo: con tutto ciò a Roma non vi si pensa; sì perchè sono molto lontane, come perchè privano di ossequi e di adorazioni, ma non di denari, che soli adesso sono in prezzo.

È venuto il libro del re d’Inghilterra. Il papa ha fatto presti uffici perchè non si riceva; però infruttuosamente. S’aspetta, e senza meno, una severa proibizione di esso da Roma; e forse che questi leggieri principii termineranno dove non possono i


  1. Vedi la nostra nota a pag. 181, e la Lettera dei 10 maggio 1610. In quanto, poi, alla supposta inutilità dell’ammirabile invenzione ne’ bisogni della guerra, l’errore di Fra Paolo non potrebbe attribuirsi se non se allo stato d’imperfezione in che il teloscopio allora trovavasi.