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lettere di fra paolo sarpi. 351

non occorra eccesso, dove alcun tale non sii in complicità. Li guadagni della corte romana sono questi: dove, innanzi li mali eccitati da loro, ne era imprigionato uno ogni dieci anni, ora ne sono imprigionati venti all’anno. Ma da Roma le cose passano tanto quiete, che non si può desiderar più. È necessario che l’illustrissimo Mocenigo1 abbia la grazia di san Paolo: non so che altro dire.

Ringrazio affettuosamente V.E. della relazione che mi dà delle cose della religione costì; e per non abusar più lungamente la grazia che mi fa leggendo le mie dicerie, farò fine baciandole la mano.

Venezia, 27 novembre 1609.




CVIII. — Al medesimo.2


Se cotesto regno è sterile di nuove, nè l’Italia è fertile in questo tempo, dove ognuno sta volto verso Torino, aspettando la risoluzione di quell’Altezza,3 la quale ogni giorno si fa più incerta. Pareva che la trattazione fosse affatto tralasciata; ora è ripigliata, e si negozia più che mai: e Dio voglia che la levata, quale gli Spagnuoli disegnano, di Svizzeri e Tedeschi sotto pretesto dell’occasione de’ Mori, non sii per gelosia di questo trattato; quale io entro in pensiero che sarà di quelle cose di Platone, che semper fuit et numquam sunt.


  1. Cioè, l’ambasciatore veneto alla Corte di Roma. Vedasi la Lettera CIII.
  2. Impressa come sopra, pag. 137.
  3. Cioè di Carlo Emmanuele, che allora macchinava col re di Francia di muover guerra agli Spagnuoli nel ducato di Milano.