Pagina:Satire di Tito Petronio Arbitro.djvu/158

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CAPITOLO DECIMONONO

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i begli ingegni s’incontrano.



Ma facil non m’era di vincere il desiderio di vendicarmi, e agitato trascorsi la metà della notte; per alleviarmi però dalla malinconia e l’offesa dimenticare, quando fu giorno sortii; e gironzando pei portici giunsi ad una galleria,88 maravigliosa per varietà dei quadri; imperocchè ne vidi di mano di Zeusi non ancor guasti dalla ingiuria del tempo, e toccai non senza certo rispettoso orrore alcuni abbozzi di Protogene, che rivalizzavano colla verità della natura. Venerai pur anco un Apelle, ossia un Monocromate,89 come dicono i greci, dove i contorni delle figure eran di tanta eccellenza, e sì precisamente simili al vero, che avresti creduto che perfin l’animo vi fosse pinto.

Là un’aquila alta portava pel cielo Giove: quà il candido Ila cacciava da se la impudica Naiade;90 e altrove Apollo rodevasi le mani omicide, e la sdraiata sua cetra adornava del fior testè nato.91

In mezzo alle sembianze di questi amanti pitturati, io, come se fossi in luogo solitario, sclamai: amor dunque colpisce sin anco gli Iddii? Non ha Giove nel cielo suo chi sciegliersi? ma venendo a peccar sulla terra non fa ingiuria a veruno. La Ninfa rapitrice