Pagina:Satire di Tito Petronio Arbitro.djvu/188

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132 capitolo ventesimoquarto

tagliarsi nella nave le ugne o i capegli, fuorchè nel caso che il vento s’infurii col mare.

Lica da queste parole turbato montò in collera, e disse: alcun dunque si rase nella nave i capegli, e ciò in una notte sì placida? Traetemi tosto dinanzi codesti rei, onde io sappia con quali teste debbasi purgare il vascello.

Diedi io quest’ordine, rispose Eumolpione, non certamente per fare una fattucchieria alla nave, dov’io pure mi trovo: come coloro avean capegli orribilmente lunghi, acciò non sembrasse che della nave io facessi una galea, ordinai che si levasse tale squallore da quei birbanti, anche ad oggetto che i caratteri, non dal concorso delle chiome coperti, si affacciassero interi all’occhio de’ leggenti. Tra le altre cose essi consumarono il mio danaro con una druda loro comune, dalla quale nella notte passata li cacciai, tutti pieni di vino e di unguenti: insomma, costoro amoreggiano ancora il resto del mio patrimonio.

Dopo ciò per placare il nume tutelar della nave si ordinò che ci fossero date quaranta sferzate: nè vi fu tempo tra mezzo: i marinai furibondi ci assalirono colle corde, tentando di appagare il nume con sangue abborrito. Ed io pure tre sferzate mi digerii con una gravità spartana: ma Gitone al primo colpo gridò si forte, che la sua notissima voce ferì gli orecchi a Trifena. Non ella sola però conturbossi, ma eziandio tutte le ancelle mosse dalla conosciuta voce accorsero verso il paziente.

Di già colla sua mirabil bellezza Gitone disarmava i marinai, e ancor non parlando erasi posto a pregare que’ manigoldi, quando le ancelle sclamarono ad un tempo: egli è Gitone, Gitone, trattenete quelle barbare mani, egli è Gitone: padrona, soccorrilo.

Trifena tese le orecchie, già disposte a credere, e corse verso il fanciullo.