Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
Dopo un dibatter lungo alfin sen viene
Al suo padron gridando: — Eh! signor mio,
Di curiosità son tutte piene
Quelle genti, o soffrir non li poss’io.
Sapere a forza essi volean da me
Il nome suo. Ma non l’ho detto, affè! —
– Su, su, va a dirlo pur sciocco che sei. —
Così torna alla posta il servitore,
In men che adesso dirvelo potrei,
Le lettere a pigliar del suo signore,
Dicendo chiaro e ad alla voce il nome,
E facendo seguir dopo il cognome.
— Ciocco Scecchè centesimi quaranta. —
— Per due lettere sol tanti quattrini? —
— Ma che? Tornate dalla terra santa,
O venite di là de beduïni? —
— Ebben! gliene darò soltanto venti. —
— Quaranta dico. — Eh! via, se ne contenti! —
— Oh! che cos’è? Qui non si scherza, amico. —
Il mio padron vuol fatta economia. —
— Del padron vostro me ne importa un fico. —
— Gliene dò trenta... son pagate... via! —
— La finite una volta colle buone,
O la finisco io questa canzone? —
— Ebben, tutti quaranta eccoli quà.
Mi faccia almen, di grazia, un sol piacere.
Senta all’orecchio: Un’altra me la dà? —
Ma subito che quegli ebbe a vedere
Con chi aveva da far quella giornata
Gli diede un po’ di carta ravvoltata.
Egisto allor torna con piè veloce,
Di tanta economia bello e splendente,
E con sonora, piena ed alta voce
Narra il gran caso al suo signor repente.
Ma visto che ’l padron gettò lontano
Da sè quel foglio, già recato invano,