Pagina:Seneca - Lettere, 1802.djvu/68

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il puro piacer che ne viene da questa ricordanza. E se volemo credere a quest’Attalo, il pensare agli amici sani, è un godere, come si suol dire, a mele e fogaccia; e il ragionar di quei, che sono stati, piace ancorchè non senza qualche poco d’acerbezza. E chi sarà che neghi che ancora queste cose acerbe, e che hanno non so che dell’austero, faccino stomaco? Io son di contrario parere, et il pensare agli amici defonti a me è cosa dolce e gioconda: perocchè io gli ebbi, come quello che gli dovevo perdere; e gli ho perduti, come s’io gli avessi. Fa dunque, il mio Lucilio, quel che si conviene alla tua equità. Non voler pigliar in mala parte il benefizio della natura, che se te l’ha levato, te lo diede anco. E però godiamone avidamente gli amici, perchè egli è incerto quanto tempo gli possiamo godere. Pensiamo quante volte ne siamo stati senza, per qualche lungo viaggio che abbiano fatto; quante volte stando nel medesimo loco, non gli abbiamo veduti; e conosceremo apertamente che molto più tempo noi gli avemo perduti, mentre erano vivi. Sopporta costoro, che essendo negligentissimi in goder gli amici, gli piangono poi miserissimamente; nè amano alcuno, se non dopo che l’hanno perduto: e però allora molto maggiormente se ne attristano. E perchè dubitano che non si revochi in dubbio se gli abbiano amati, o no, cercano questi tardi indizj del loro affetto. Se noi avemo altri amici, ci portiamo e giudichiamo anco male d’essi, a stimargli tanto poco, che tutti insieme non ne possino