Pagina:Seneca - Lettere, 1802.djvu/95

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ticella di tempo nella filosofia. E sopra tutto, quel che più d’ogn’altra cosa n’impedisce, è che tosto ne compiacemo di noi medesimi: e se troviamo chi ne dica che noi siamo uomini da bene, e prudenti, e santi, ci tenemo, e ci riconoscemo per tali. Non ci contentiamo di mediocre laude. Tutto quello, che da una sfacciata adulazione ci è attribuito, ce lo pigliamo come debitamente datoci; et assecondiamo coloro, che ci predicano per buoni, e per savj, con tutto che certamente sappiamo, che quelli tali dicono molte volte gran bugie: e compiacemo anco di sorte a noi stessi, che vogliamo esser lodati di quello, del quale noi facemo il contrario, et allor che maggiormente il facemo. Quando uno è nel tormentar altri con supplicj, allor è che volentier ascolta d’esser chiamato mansueto: quando ruba, liberalissimo: quando è sepolto nel vino, e nella libidine, temperantissimo. Seguita dunque che la cagione, per la quale non ne curiamo di mutar natura, è perchè ci persuademo d’esser bonissimi. Alessandro, vagando già nell’India, e facendo guerra a genti non ben conosciute nè anco dai finitimi, nell’assedio d’una città, mentre circondando le muraglie andava cercando dove fussero più deboli, ferito da una saetta, e fermatosi alquanto, seguitò quel ch’egli avea cominciato. Ma poichè, stagnato il sangue, cominciò a crescere il dolore dell’asciutta ferita, e la gamba appesa al cavallo a poco a poco s’addormentò, costretto dalla necessità di togliersi dall’impresa, Tutti, disse, giurano ch’io son figliuol di Giove: ma que-