Pagina:Seneca - Lettere, 1802.djvu/96

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sta ferita grida apertamente ch’io son uomo. Il medesimo convien che noi facciamo. Quando l’adulazione cerca di far impazzire ciaschedun di noi per la sua parte, diciamo: voi mi dite ch’io son prudente; et io veggo quante cose inutili io desideri, e quante ne brami, che non mi ponno apportar altro, che nocumento: e non conosco ancora che la saturità mostra agli animali quanto si debbia bevere, e mangiare; et io non so quanto mi debbia desiderare. Or io ti voglio insegnare come facilmente ti potrai accorgere di non esser savio. Savio è colui, che pieno d’allegrezza, giocondo, e placido, et intrepido vive eguale agli Dei. Ora esamina te stesso: e se nè mestizia, nè speranza alcuna di cosa, che tu aspetti, ti tormenta l’animo elevato, e che compiace a se medesimo è in questa disposizione egualmente il giorno, come la notte, tu potrai dire d’essere pervenuto alla perfezione del bene umano. Ma se ritroverai in te da ogni banda appetito d’ogni sorte di piaceri; sappi che tu sei tanto lontano dalla saviezza, quanto sei anco dalla vera allegrezza: alla quale so ben che tu desideri di pervenire; ma sei in errore, credendo di potervi arrivare per via delle ricchezze. Tu cerchi d’avere questo contento d’animo tra gli travagli, e tra gli onori di questo mondo? Queste cose, che tu ricerchi, come t’abbino ad arrecare allegrezza, e piacere, son cagioni di dolore. Tutti tirano a questa allegrezza, ma non sanno però donde se la possino conseguire, che sia stabile e grande. Altri pensano d’ottenerla per conviti, e per darsi alla lussu-