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la porta. Andrea comprese, si staccò da Cantelmo, si avvicinò a lei e le porse la mano, come se la vedesse per la prima volta nella giornata. Parlarono, freddamente, come semplici conoscenze.

— State bene?

— Meglio: grazie. Perchè siete tornato?

— ... mi trovavo da queste parti. Poi, la sala è piena di gente; posso fermarmi anche io.

— Rimanete: voi dovete amare i fiori.

— No: mi sono indifferenti. Quest’aria è carica di profumi.

— Vi pare? Non me ne accorgo.

— Oh! sono fortissimi. Come possono resistere tante signore?

— Vi ricambio le vostre spiegazioni, signor Andrea. Io li adoro questi fiori e li capisco. — Vedete questi gelsomini: sono fiori spagnuoli, dal profumo già forte, fiori rassomiglianti a una stella. Si arrampicano anche, tenacemente, come un amore modesto ma costante.

— Che ne sapete voi dell’amore? — disse Andrea ironicamente.

— Quello che gli altri non sanno e che voi non sapete — ribattè lei. — Guardate, guardate quanto è bello questo grande fascio di rose bianche e di rose thea, che colori leggeri e delicati!

— È il fiore che portavate voi al ballo di Casacalenda, e l’altro giorno all’inaugurazione.

— Avete una buona memoria. V’annoiate di questo giro?