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asse dentro se stessa, senza che il mondo esteriore e il suo medesimo amante potessero strapparla a questa contemplazione. Andrea aveva il contegno tranquillo e la sere: noncuranza dell’uomo che è sicuro di sè, che è sicuro dell’avvenire. Quando scambiavano un’occhiata fuggitiva, pareva si dicessero, quieti, calmi, soddisfatti:

— Io t’amo — tu mi ami — tutto va bene.

Gli è che la giornata del giardino inglese era stata troppo passionata per non esaurire, almeno per qualche giorno, tutto l’impeto selvaggio di un amore represso. Allo stato acuto, alla vibrazione alta, era succeduto quel periodo di riposo, quella specie di cullamento orientale nella certezza di essere amato, quello stato di annullamento che riunisce la dolcezza del ricordo alla dolcezza della speranza.

Ma durò poco. Si ridestarono d’un tratto, appassionati, infelici. Una mattina Andrea si levò torbido, irrequieto, sospinto da un desiderio pungente di veder Lucia. Era troppo presto: ella dormiva. Egli passeggiò nel salotto, come un prigioniero, guardando ogni tanto l’orologio. Caterina che si era già alzata, gli portò il caffè e latte nel salotto, gli si sedette accanto per parlargli di certi conti famigliari, per ricordargli che si doveva andare a Caserta pel pagamento delle imposte. Egli ascoltava, inzuppando il biscotto nel caffè e latte, senza intendere quello che ella gli diceva. Si rodeva d’impazienza. Che poteva fare sino a quell’ora Lucia, in camera sua? Come non comprendeva che egli voleva vederla, che egli l’aspettava da un pezzo? Era