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che appariva, Andrea fu preso da una voglia pazza di darle un bacio: uno solo, uno solo, sulle labbra. Ogni tanto si accostava per farlo, parendogli che gli altri lo avrebbero creduto ubbriaco, e che agli ubbriachi tutto si perdoni. Si accostava per baciare, tormentato da quel desiderio. Si rigettava indietro, sgomentato dalla faccia bianca e tranquilla di sua moglie, dal profilo osseo di uccellino di Alberto. Un momento, Lucia intese e diventò smorta come la cera. Vide ch’egli le guardava le labbra e le nascose con la mano. Ma che importava? Egli le vedeva, vivide, sbocciate, umide, col sapore del sangue fresco che lo aveva inebbriato, là, nel giardino inglese. Le voleva succhiare, per un minuto secondo. E l’occhio fisso, le sopracciglia aggrottate, il pugno chiuso sulla tovaglia, egli si ribadiva nella mente questa risoluzione, mentre gli altri seguitavano a discorrere di Napoli e delle feste invernali che si approssimavano.

Passarono in salone a prendere il caffè. Egli cercò di attirare Lucia dietro il pianoforte, per poterle dare un bacio: un’assurdità, perchè il pianoforte era troppo basso. Si accesero i lumi, Caterina si mise al pianoforte e suonò le sue solite cose, poco difficili veramente, ma suonate con un certo garbo: la rêverie di Schubert, il preludio della Traviata al quarto atto, la marcia delle rovine di Atene, un pezzo popolare di Beethoven. Lucia era distesa sulla poltrona americana, la testa abbandonata, i piedini nascosti sotto le pieghe dello strascico, sognando. Alberto, di fronte a lei, sfogliava l’album della guerra franco-prussiana, trovando