Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
parte prima | 39 |
alla monella, come mai non erano stati: una testolina birichina tutta folta di riccioli. Giovanna Casacalenda, tolto il grembiule, era rimasta tutta bianca: un candore splendido, tagliato alla vita dalla cinta di lana tricolore. Artemisia Minichini portava al collo, attaccato a un nastro di velluto nero, un grosso medaglione d’oro. Ginevra Avigliana portava nel giro della cintura, proprio sotto il cuore, tre rose rosse. Ma tutte rimanevano serie e composte in quella classe che già pareva deserta: sui banchi non un libro, non un foglio di carta, non una penna. I calamai chiusi. Alcuni cassetti aperti, vuoti. In un angolo, per terra, dietro la lavagna, un mucchio di carte stracciate, spiegazzate, fatte in pallottole, fatte in pezzetti. Sopra una parete, fatto a saggio di calligrafia, stampatello, tondo e inglese, tutto svolazzi, un quadro che diceva così: — Nell’anno scolastico.... compivano gli studi del quinto corso ginnasiale le signorine.... — E la prima era Lucia Altimare. Era la chiusura, il volume serrato, la parola Fine. Le signorine non si voltavano mai dalla parte del quadro. Qualcuna aveva gli occhi lievemente arrossiti.
Quel giorno la lezione si svolgeva grave, severa. Tutte avevano studiato quel periodo del 1815 col quale termina il programma di Storia. Ogni tanto il professore faceva qualche osservazione critica, che le alunne ascoltavano attentamente. Caterina Spaccapietra, l’annotatrice diligente, segnava con una matita sopra un pezzo di carta. Il professore, quel giorno, era più brutto e più pallido che mai: sembrava più magro, più meschino nei panni che gli facevano addosso tante