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pieghe sgraziate. Sulla cravatta di raso rosso cupo, di pessimo gusto, un grosso cammeo, uno di quei vecchi gioielli senza valore delle famiglie provinciali, era la nota più ridicola della sua persona. Quel giorno egli fuggiva con più cura gli sguardi delle collegiali. Le stava a sentire con una grande attenzione, con gli occhi socchiusi, dicendo di sì col capo, mormorando qualche bene sottovoce. Ogni tanto dava il commento, come parlasse a se stesso, distratto.

Così suonò la mezz’ora. Come i minuti passavano, la voce di quella che diceva la lezione si faceva più bassa, più tremula: poi, in fondo, il professore aggiunse certe notizie storiche intorno a Napoleone. Parlava piano e scegliendo le parole. Quando ebbe finito, scoccarono i tre quarti. Maestro e alunne si guardarono, presi da una pena subitanea, da un imbarazzo doloroso.

L’insegnamento di storia era finito.

— La classe chiede il permesso di far leggere la sua lettera di congedo — disse Cherubina Friscia, senza che niuna emozione turbasse la sua voce indifferente.

Egli esitò: una indecisione angosciosa gli si dipinse sul volto.

— Io preferirei leggerla a casa.... con più raccoglimento.... — balbettò lui, non trovando nulla di meglio da dire.

— No, no, ascoltatela, professore! — supplicarono due o tre voci tremanti.

— È l’uso, professore — disse seccamente Friscia.

Ci fu un minuto di silenzio. D’improvviso le facce