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sari, agenti teatrali e segretari di agenzie teatrali in Napoli. Era Gelsomina Santoro, che studiava il canto al Conservatorio, che appena appena sapeva leggere e non sapeva scrivere affatto, che aveva solo un filo di voce, che non capiva nulla della grammatica musicale, ma che certo avrebbe fatto carriera, visto la sua bellezza. Questo gruppo ascoltava la musica, con le sopracciglia spianate e l’aria assorbita delle persone importanti; le Fusco compativano la povera cantante, ridotta a quel mestiere, mentre, forse, avrebbe potuto avere miglior fortuna, la Costa faceva moto di disprezzo con le labbra e Gelsomina Santoro aveva sempre il suo aspetto sereno, di stupidona soddisfatta e seducente. La cantante finì, senza che nessuno l’applaudisse: stette un momento indecisa, poi andò attorno con un piattello di stagno. Cercava, sorridendo, ma senza guardare in viso la persona, voltando la testa dall’altra parte; e aveva un contegno fra scettico e umile, come se fosse sicura di raccogliere poco. Infatti, fra tanta gente, raccolse solo cinque soldi. Li buttò in tasca senza superbia, ma senza guardarli: fece una crollata di spalle e andò a sedersi in un angolo, aspettando a cantar di nuovo.

Due soldi glieli aveva dati proprio una delle sorelle Cafaro, certe ragazze provinciali, di Picinisco, in Terra di Lavoro, che passavano a Napoli cinque o sei mesi dell’anno. Erano ricche, tanto ricche, trecentomila lire di dote per ognuna e poi delle eredità, che nessuno in paese, nè nella provincia, osava di chiederle.

Correva voce che avessero pretensioni enormi, niuno osava presentarsi: esse si maturavano, la più grande