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42 telegrafi dello stato


— .... nulla, grazie; — mormorò stupidamente la Borrelli.

Il direttore, come al solito, girava attorno ai tavolini, con una lentezza che faceva fremere d’impazienza quelle che volevano andar via prima: leggeva i registri, a lungo, come se li studiasse; leggeva l’ora di tutti i telegrammi fermi, per la chiusura festiva degli uffici. Markò, Borrelli, Juliano, Pescara, le altre, guardavano supplichevolmente la direttrice, quasi la implorassero di alzarsi dal suo posto, di raggiungere il direttore, di chiedergli quel benedetto permesso. Erano le otto e mezzo. La direttrice non capiva o fingeva di non capire: ella sapeva di non dover interrompere il direttore, nel suo controllo. Quei minuti che passavano, sembravano eterni. Ad un momento disperarono: il direttore aveva preso un telegramma di transito, alla linea di Terracina e se n’era andato verso la porta a tamburo della sezione maschile.

— Se ne va e non abbiamo il permesso, — pensavano.

Era un falso allarme: egli ritornò subito, e questa volta, andò direttamente alla scrivania della direttrice. Le parlava sottovoce, senza gestire, ma con una forza e una intensità che trapelavano: ella ascoltava, tutta intenta, con gli occhi abbassati, una mano bianchissima allungata sulla scrivania, l’altra che le reggeva la guancia: ogni tanto le palpebre le battevano, come se approvasse. Ella non rispondeva, però: ed egli seguitava a discorrere, energicamente, senza alzar la voce. Le ragazze che avevano chiesto il permesso fremevano, come se quell’ultimo quarto d’ora rappresentasse la