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telegrafi dello stato | 53 |
la propria trasmissione, che non pareva possibile egli arrivasse in tempo a riceverla.
— Svelte, signorine, svelte, — strillava la vice-direttrice.
— Abbiamo un grave ritardo, — mormorava la direttrice, girando attorno ai tavoli.
Anche il direttore andava e veniva, ma muto, serio, senza fare osservazione, passeggiando come un leone nella gabbia. Non diceva niente, vedeva tutto: la faccia pallida di Annina Pescara che sedeva da dieci ore alla linea di Reggio e crollava ogni tanto il capo, come se non potesse reggerlo; la pazienza angelica di Clemenza Achard, che combatteva con sette piccoli uffici sulla sua linea, che tutti avevano telegrammi e tutti volevano avere la precedenza; il tormento di Ida Torelli che si dannava alla linea Napoli-Ancona-Bologna, ella aveva sessanta dispacci, Ancona e Bologna perdevano il tempo a litigare fra loro; la perizia di Peppina De Notaris che arrivava a intuire, più che a leggere, la trasmissione del corrispondente di Catanzaro, una bestia che non sapeva trasmettere. Egli dava le volte come il leone, ma non diceva niente: le ausiliarie, erano tutte svelte, tutte intelligenti, quel giorno: quell’ambiente, quell’eccitamento avevano sviluppato in loro qualità nuovissime. Si soccorrevano, con amore, scambievolmente, d’inchiostro, di penne, di carta; le più disadatte alla corrispondenza, registravano, mettevano l’ora ai dispacci, contavano le parole, mettevano i rotoli di carta, raccoglievano i telegrammi trasmessi. Non vi erano più distinzioni di turno, di antipatie, di