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216 La Conquista di Roma

rientrato in sè stesso, estraneo a tutte le cose esterne. I fogli si ammucchiavano alla sua sinistra, egli non si fermava che per isfogliare i resoconti parlamentari, per consultare un grosso volume sull’inchiesta agraria, o un piccolo taccuino vecchio e sdrucito. Alle undici, nel fervore del lavoro, si udì un piccolo scricchiolìo di chiave, e una donna entrò, richiudendo la porta senza far rumore.

«Sono io,» diss’ella chetamente, stringendo al petto un fascio di rose. Egli alzò la testa, e la guardò con gli occhi stralunati di chi non si toglie ancora alla sua preoccupazione, tanto da non riconoscere la persona che entra.

«Ti disturbo?» chiese Elena, con la sua voce cantante. «Sì, sì, ti disturbo. Resta a scrivere, fa il tuo lavoro. Mi annoiavo tanto stamane, in casa, con questo tempo plumbeo, che mi son fatta trascinare in carrozza per due ore, il povero cavallo scalpitava nel fango, ho visto scivolare della gente, le donne che andavano a piedi avevano gli stivaletti inzaccherati, una pietà. Dovendo aspettare sino all’una, perchè tu venissi a colezione, ho preferito venir qua. Ma tu scrivi... Leggerò un libro.»